Racconto di Natale
La casa era calda e ordinata.
Dalla cucina provenivano profumi prelibati e rumore di stoviglie e di pietanze in cottura, ognuno di noi aveva la propria partitura da eseguire.
Ricordo che in casa, sin dal mattino, si susseguivano amici e parenti per un saluto ed un augurio, per raccontare, con genuina curiosità o petulante invadenza, le ultime notizie di qualche lontano cugino del quale si erano perse le tracce. Per riuscire a reggere tanta bizzarra curiosaggine, sul tavolo della cucina trovavano posto qualche dolce e la malvasia: era chiaro che non si potesse abbandonare il governo delle pietanze e che solo la proverbiale pazienza delle donne avrebbe permesso di sopportare tanta chiacchiera. Una di loro avrebbe poi trovato il tempo di stirare la tovaglia da sistemare sul grande tavolo della vigilia; si apparecchiava nella sala da pranzo ed intorno al tavolo non sedevano mai meno di 10 persone,col servizio buono e la tovaglia di fiandra senza neanche una piega. Era tutta una frenesia, si riattizzavano camini e stufe ed accanto al ginepro, un genuino sostituto del nordico abete, si attaccavano torroncini e minuscoli mandarini che avrebbero fatto felici noi bambini. Anche i più piccoli erano impegnati nelle faccende, ciascuno, a seconda dell’età, riceveva un compito più o meno impegnativo, e ci si prodigava per eseguirlo il meglio possibile, per non rischiare che la “scat’la forëda” risultasse poi vuota, priva di quei dolci e quelle caramelle che avrebbero reso imperdibile l’unico dono dell’anno. Ma appena si riteneva di aver terminato, si scappava fuori per andare a giocare alla guerra nel boschetto di sambuchi vicino a casa, mettendo in campo armi primitive, costruite con legni e fil di ferro, ma sufficientemente minacciose per tendere imboscate e, addirittura, vincere battaglie. Poi tutto finiva, rosicchiando un po’ di pane preso di nascosto dalla credenza, badando bene di non pigliare mai, nemmeno per sbaglio, la micchetta di Natale, pena la più severa delle punizioni.
Ricordo che in casa, sin dal mattino, si susseguivano amici e parenti per un saluto ed un augurio, per raccontare, con genuina curiosità o petulante invadenza, le ultime notizie di qualche lontano cugino del quale si erano perse le tracce. Per riuscire a reggere tanta bizzarra curiosaggine, sul tavolo della cucina trovavano posto qualche dolce e la malvasia: era chiaro che non si potesse abbandonare il governo delle pietanze e che solo la proverbiale pazienza delle donne avrebbe permesso di sopportare tanta chiacchiera. Una di loro avrebbe poi trovato il tempo di stirare la tovaglia da sistemare sul grande tavolo della vigilia; si apparecchiava nella sala da pranzo ed intorno al tavolo non sedevano mai meno di 10 persone,col servizio buono e la tovaglia di fiandra senza neanche una piega. Era tutta una frenesia, si riattizzavano camini e stufe ed accanto al ginepro, un genuino sostituto del nordico abete, si attaccavano torroncini e minuscoli mandarini che avrebbero fatto felici noi bambini. Anche i più piccoli erano impegnati nelle faccende, ciascuno, a seconda dell’età, riceveva un compito più o meno impegnativo, e ci si prodigava per eseguirlo il meglio possibile, per non rischiare che la “scat’la forëda” risultasse poi vuota, priva di quei dolci e quelle caramelle che avrebbero reso imperdibile l’unico dono dell’anno. Ma appena si riteneva di aver terminato, si scappava fuori per andare a giocare alla guerra nel boschetto di sambuchi vicino a casa, mettendo in campo armi primitive, costruite con legni e fil di ferro, ma sufficientemente minacciose per tendere imboscate e, addirittura, vincere battaglie. Poi tutto finiva, rosicchiando un po’ di pane preso di nascosto dalla credenza, badando bene di non pigliare mai, nemmeno per sbaglio, la micchetta di Natale, pena la più severa delle punizioni.
Mi aggiro per casa con la solita aria inconcludente, cerco di sistemare le ultime due decorazioni che ho estratto senza alcun entusiasmo dalle vecchie scatole conservate in soffitta. Apro stanze, accendo luci, valuto; poi decido che le decorazioni staranno bene nella sala da pranzo, sul grande camino di pietra, vicino all’orologio. Osservo la tavola senza lo stupore che provavo da bambina, e decido, finalmente, di iniziare a preparare per la cena.
Apparecchio senza amore, disegno una nuova geografia di questa tavola di Vigilia. Sposto piatti e segnaposto, aggiungo un centrotavola, forse sarà utile a chiudere il buco che sento nel cuore, accendo le candele, sono tre, chiare e luninose su questo tavolo benedetto che renderà santo ed incorrotto anche il pane.
Ricordo quando mani generose sistemavano una micchetta di pane al centro del tavolo, a debita distanza da tutti i commensali, quasi a preservarla dall’euforica voracità che aleggiava nell’aria. La micchetta doveva superare indenne la cena, e rimanere sulla tavolo apparecchiato sino a mattina.
La tradizione vuole che la micchetta posta sulla tavola imbandita la Vigilia di Natale si conservi incorrotta sino al Natale successivo. Così accade sin da che ho memoria del Natale. Restava custodita nella credenza tutto l’anno, sino alla Vigilia successiva quando con gesti rapidi e decisi mia nonna la tagliava per poi darla alle bestie come viatico natalizio: la santificazione del cibo e del lavoro in un solo gesto.
Ora la micchetta è sistemata anche su questa tavola di vigilia. Mancano in tre. I posti dei padri sono vuoti. Guardo il vecchio orologio ticchettante e penso che tra qualche ora questa antica sala da pranzo sarà di nuovo viva, pronta a regalare futuri ricordi e inaspettati sorrisi ai quali non voglio più sottrarmi. Torno in cucina, apro la credenza e prendo la micchetta di pane che ho riposto io stessa ormai un anno fa, e mi preparo a sbriciolarla per gli uccellini e per le galline del pollaio.
Lascio le briciole per i pettirossi sul davanzale e mi infilo la mantella per scendere sino al pollaio; ormai è quasi buio, la luce fioca del giorno lascia spazio alle ombre che si allungano dal bosco di sambuco sin verso casa.
Osservo la casa illuminata, sembra che il tempo si sia deformato: sono grande, sono piccola, cosa sono? Il freddo mi mette fretta, le galline dormono sui trespoli, mangeranno il pane santo domattina ed io m’incammino lungo il sentiero verso casa. Esito con il mio carico di legna davanti alla porta, mi sembra di sentire qualche rumore, sarà il vento tagliente di tramontana, e mi dirigo verso la sala da pranzo per governare il camino. Le luci sono accese, il camino è quasi spento, si sente odor di ginepro e non mi pare di aver sistemato la micchetta vicino alle candele… Domino lo stupore, non ci sono ginepri in casa, era papà che andava in cerca del ginepro più bello da addobbare con gioia tutti insieme.
C’è uno spazio magico quando la sera della Vigilia si allungano le ombre, e sul tavolo santo possono tornare molto più che i ricordi.
Osservo la casa illuminata, sembra che il tempo si sia deformato: sono grande, sono piccola, cosa sono? Il freddo mi mette fretta, le galline dormono sui trespoli, mangeranno il pane santo domattina ed io m’incammino lungo il sentiero verso casa. Esito con il mio carico di legna davanti alla porta, mi sembra di sentire qualche rumore, sarà il vento tagliente di tramontana, e mi dirigo verso la sala da pranzo per governare il camino. Le luci sono accese, il camino è quasi spento, si sente odor di ginepro e non mi pare di aver sistemato la micchetta vicino alle candele… Domino lo stupore, non ci sono ginepri in casa, era papà che andava in cerca del ginepro più bello da addobbare con gioia tutti insieme.
C’è uno spazio magico quando la sera della Vigilia si allungano le ombre, e sul tavolo santo possono tornare molto più che i ricordi.
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